A tre anni dalla violenta aggressione ai danni di suo figlio, abbiamo fatto una chiacchierata con la professoressa Iavarone, la mamma di Arturo Puoti.
La professoressa Iavarone, docente presso la facoltà di Scienze Motorie dell’Università Parthenope di Napoli, mamma di Arturo Puoti, l’allora 17enne accoltellato a dicembre 2017 mentre passeggiava su Via Foria.
Mancava una settimana a Natale. Come molti suoi coetanei, Arturo approfittava dell’aria di festa per uscire nel centro storico di Napoli.
Ad un tratto – come se nulla fosse – viene raggiunto e accoltellato da un gruppo di ragazzi, apparentemente per i motivi più futili. Un fendente lo colpisce sulla gola, lasciandolo in una pozza di sangue.
Dopo l’iter giudiziario, a maggio scorso per 3 dei 4 ragazzini accusati è arrivata la condanna definitiva in Cassazione a 9 anni e 3 mesi di reclusione. Uno di loro è risultato non imputabile poiché infraquattordicenne nel momento dei fatti. Da quel giorno, come tutte le madri, anche la sua non si è data pace. Ha chiesto a gran voce giustizia e l’ha ottenuta. Ma il suo non era un grido di vendetta.
Come ci spiega, la sua è una battaglia di sensibilizzazione: ha fondato l’associazione “ARTUR” che si occupa di recupero e reinserimento sociale di minori a rischio e ha da poco pubblicato un libro scritto in collaborazione con il giornalista Nello Trocchia, il cui titolo è emblematico: “Il coraggio delle cicatrici” (UTET Edizioni).
Vorrei iniziare con una domanda forse banale che però, sarà utile ad inquadrare il fenomeno: le babygang a Napoli rappresentano un problema specifico? Oppure sono un sotto-prodotto non autonomo dei più ampli fenomeni della criminalità organizzata, che pure è fortemente radicata nel territorio? Qual è l’eziologia del fenomeno, qui?
Io stessa mi sono interrogata a lungo sull’eziologia del fenomeno, che tra l’altro indago nel libro, che a sua volta è il tentativo di salire la china di queste manifestazioni, non soltanto in maniera descrittiva. Abbiamo studiato la devianza come modalità di comunicazione e modalità di linguaggio. Mi preoccupa il fatto che questi giovani siano privi di un linguaggio prosociale. Stesso tra loro hanno atteggiamenti aggressivi, ambivalenti, scatti d’ira incontrollata e immotivata. La vicenda di Arturo è il dagherròtipo di questa modalità. Poi naturalmente, si tratta di ragazzi che provengono da un humus culturale e familiare carente. Senza dubbio il fenomeno non è circoscritto alla città di Napoli, ma è comune a tutte le periferie delle piccole e grandi realtà urbane. Il problema è che qui, a Napoli, queste modalità vengono pescate all’interno di un contesto già deviato, legato alla camorra e alla criminalità organizzata. Quindi la criminalità fa scouting tra questi gruppi, che vengono utilizzati anche per piccoli traffici e piccoli reati. Quindi a Napoli anche questo fenomeno diventa più problematico, poiché lo sbocco naturale di queste tendenze è poi la criminalità organizzata.
Quale è allora il confine tra il ruolo della famiglia e quello dello Stato? E quali sono le responsabilità di entrambi?
Che questi ragazzi siano l’espressione dell’abbandono familiare, è scontato. Proprio quando la famiglia fallisce, lo Stato dovrebbe supplire.
Il problema è che – spesso – pare non ci sia quell’atteggiamento da parte delle istituzioni teso ad una efficiente prevenzione del fenomeno devianza. Lo Stato non può agire solo in maniera repressiva quando oramai è troppo tardi. Le politiche educative a sostegno delle famiglie, dovrebbero essere impostate sin dai primissimi momenti di vita dei figli. Da quando queste madri, spesso giovanissime, concepiscono i loro bambini. Perché un altro fattore statisticamente rilevante, è proprio la giovanissima età delle madri di questi ragazzi.
Ed è un problema ciclico. Io personalmente ho riscontrato che circa il 70% dei ragazzi ospitati a Nisida (l’istituto penale minorile di Napoli, ndr), sono già padri. Ogni volta che chiedo a questi ragazzi “perché hai deciso di avere figli a 17/18/19 anni?”, viene fuori che per loro è una sorta di strumento di auto-responsabilizzazione, “così metto la testa apposto”, dicono. Ma non bisogna dimenticare che anche questi ragazzi sono l’espressione di storie di vita dolorosissime. Molti di loro, una volta nei circuiti della giustizia, ricevono diagnosi mediche importanti. Quindi, alla necessità di trattamenti rieducativi, si accosta quella di trattamento terapeutico.
Lei professoressa Iavarone, ha vissuto una delle esperienze più terribili che un genitore possa trovarsi ad affrontare. Ma, come dicevamo, non è un caso isolato nel contesto partenopeo. Ora, da genitore a genitore: cosa si sente di dire ai familiari delle nuove vittime?
Pochi si aspettavano questa mia reazione. Quello che non si aspettavano, credo, era il ricorso massiccio ai media e alla comunicazione. Quando ho iniziato a riceve minacce dalla camorra, tutti quanti mi dicevano: “stai zitta, non parlare” e “ma tu non hai paura?” Come ho detto a queste persone, io ho sperimentato la paura più grande. Quella di perdere un figlio. Non riesco a immaginarne altre. Il riscatto parte innanzitutto dalla denuncia, dall’abbattere il muro dell’omertà e rompere il vincolo del silenzio.
Ho provato a cambiare la narrazione di questa vicenda. Non mi sono ripiegata sul mio dolore.
Non ho fatto la mater dolorosa, ma mi sono rimboccata le maniche e ho pensato a riscattare l’immagine di Arturo, anche aprendo una battaglia collettiva di responsabilizzazione. Ora ho una pagina con diverse migliaia di follower. Molti di questi, lì sui social, mi espongono gli episodi di cui sono stati vittime loro o i loro figli. Io stessa ne ho accompagnati alcuni a esporre denuncia. Denunciate sempre.
E lei lo ha fatto, contro tutto e tutti. Poi nel suo caso l’iter giudiziario si è concluso a velocità inattesa e con condanne severissime
Sicuramente la condanna è stata esemplare. La rapidità della Magistratura, forse è stata anche frutto del mio impegno serrato. E questo non lo trovo neanche giusto, poiché il decorso della giustizia dovrebbe naturalmente essere uguale per tutti.
Cosa ne pensa quindi delle condanne ricevute? Le ritiene giuste? Non si dovrebbe evitare in ogni modo di ridurre una persona (e una personalità) al solo reato commesso?
Assolutamente. Dobbiamo smetterla di chiamarli carnefici, ma senza de-colpevolizzare l’atto. Anzi, al contrario. Ma dobbiamo metterli nella condizione di non sentirsi appiccicata addosso un’etichetta della quale difficilmente si libereranno. Più che carnefici, dovremmo chiamarli “attori di reato”. Loro devono sentirsi responsabilizzati rispetto all’atto che hanno compiuto. Molti di loro non si rendono neanche conto del dolore che provocano, ne sono ignari. Come nel caso dell’omicidio di Della Corte (il vigilante di 51 anni ucciso da tre ragazzini all’esterno della metropolitana di Piscinola a marzo del 2018, ndr). È un atteggiamento auto assolutorio, li fa sentire anestetizzati alle emozioni. Molti agiscono anche sotto effetto di sostanze e hanno una visione offuscata del loro stesso comportamento.
Come agire allora su questi ragazzi?
Vanno innanzitutto accompagnati nel percorso utile a ripensare e a comprendere la gravità di un certo comportamento. Questo è un primo atto fondamentale. Personalmente ho provato a intraprendere io stessa la strada della giustizia riparativa, favorendo l’incontro tra vittima e attore di reato. Infatti, tempo fa Alfredo ha incontrato a Nisida uno dei ragazzi che lo hanno aggredito.
Come è facile immaginare, da quando suo figlio è stato aggredito, la vita della vostra famiglia è cambiata irrimediabilmente. Ecco, quanto costa a lei e alla sua famiglia mantenere aperte – almeno in parte – queste cicatrici, affinché possa rimanere alta l’attenzione su queste tematiche?
Le cicatrici devono rimanere ben visibili. Devono avere sia il valore testimoniale, che quello dell’impegno quotidiano a mettere del balsamo su queste cicatrici, per alleviarle. Una cicatrice non va nascosta, ma va portata con orgoglio e con dignità. Ti racconto un piccolo aneddoto: qualche tempo fa un chirurgo plastico ha offerto a mio figlio un intervento, soprattutto per la cicatrice alla gola. Lo avrebbe fatto pro bono, con il desiderio di dare una mano. Mio figlio ci ha pensato un po’ e poi ha rifiutato. Mi ha detto: “mamma, stiamo provando a insegnare al mondo che si possono portare delle ferite con dignità e orgoglio. Le ferite si possono ricucire, l’importante è che le persone non se ne dimentichino”.
Per quanto riguarda me, le confesso che dopo aver scritto questo libro mi sono sentita in pace, un po’ più libera. Avevo compiuto questo ultimo atto. Dovevo restituire alla gente e alla comunità quello che io avevo provato e quello che questa storia ha rappresentato per noi. Ovvero, quello che non deve mai più accadere. Io spero che il mio esempio sia di aiuto a chi si ritrova in situazioni simili. Nessuno deve pensare di potersi girare dall’altra parte. Nessuno.