Reportage a mia firma originariamente scritto per Ambasciator.it
Tra l’incudine e il martello, chi vive per strada subisce un doppio castigo: escluso dalla società civile e allontanato attivamente dalla vista dei “buoni”
Le architetture ostili, a Napoli come altrove, tracciano una linea di demarcazione ulteriore tra chi può permettersi di fruire della bellezza delle nostre città e chi, al contrario, ne provocherebbe un “danno al decoro”
Pare sia il decoro urbano, la chimera inafferrabile e l’unico faro che guida amministratori locali e nazionali, nonché qualche viandante di passaggio. Fecero scalpore alcuni anni fa le dichiarazioni affidate ai social dall’Étoile del Teatro la Scala di Milano, Roberto Bolle, che visitando la città sentenziò che “Tutti quei senzatetto che s’accampano e dormono sotto i portici del Teatro San Carlo, gioiello di Napoli, sono un emblema del degrado di questa città”. Salvo poi chiedere scusa, cancellare il tweet e ammettere di essersi “espresso male”.
Decoro e degrado: due facce della stessa medaglia
Decoro e degrado, le due facce della città partenopea si scambiano di posto in sincronia davanti alle telecamere e ai microfoni, a seconda della necessità di sostenere o di sotterrare quel personaggio politico, quell’amministratore, quel cittadino o quell’idea. Napoli viaggia su questo doppio binario, immersa nella lotta tra la necessità di rialzare la china di una città certamente afflitta da problemi di manutenzione degli spazi pubblici e privati, e quella di mantenere un rapporto con le proprie radici, costituite su basi comunitarie di mutuo soccorso.
In quest’ottica, non sorprende che nel capoluogo campano non sia così frequente imbattersi nelle cosiddette architetture ostili. Con questo termine, solitamente, si fa riferimento all’insieme delle strategie di progettazione urbanistica messe in atto per limitare, ostacolare e impedire l’utilizzo di determinati spazi o strutture. La ragione dichiarata è quella di evitarne il decadimento dovuto a comportamenti vandalici. E si torna appunto a quel decoro tanto idealizzato, che trasforma zone – già da tempo – diventate perfetti non-luoghi in non-luoghi per non-persone.
Non a caso infatti – osservando attentamente la città – non risulta difficile rilevare, anche qui a Napoli, un utilizzo spregiudicato e diffuso di cancelli, sbarre, listine in cemento, punte in ferro e divisori alle panchine. E una volta che si inizia a farci caso, è impossibile tornare indietro. Certo, soluzioni creative di questo tipo non sono indirizzate esclusivamente ai senzatetto: tecnicamente, stanno lì per impedire a tutti di fruire di quello spazio. Ma noi, e voi, una casa la abbiamo. Un divano e un tetto sulla testa non ci mancano e questo fa tutta la differenza del mondo quando la questione riguarda i posti in cui si può stare oppure no.
Napoli, come molte grandi città europee, soffre una presenza consistente di uomini e donne, giovani e adulti, italiani e stranieri che non avendo una dimora fissa si riversano per le strade, vivendo di carità ed espedienti. Nel solo centro cittadino, le associazioni di volontariato stimano la presenza di circa 2000 senzatetto. Numeri probabilmente arrotondati per difetto, vista la natura fondamentalmente elusiva dei soggetti in questione.
L’indagine che abbiamo svolto aveva come obiettivo quello di incrociare il punto di vista dei senza fissa dimora con quello di commercianti e amministratori che mettono in pratica questa peculiare forma di lotta al degrado.
Le architetture ostili a Napoli
Come accennato, il fenomeno delle limitazioni architettoniche volontarie non è immediatamente evidente a Napoli. Ed è facile immaginare che questo tipo di installazioni siano più frequenti nelle strade dello struscio e nei viali dello shopping cittadino. Gli spuntoni di metallo che si fanno strada tra le vetrine rientranti dei negozi sono tra gli esempi più comuni ed espliciti di questa pratica.
“Questa è una buona zona” ci racconta una commerciante di calzature di Via Toledo. “Sinceramente le ho montate due anni fa, quando l’hanno fatto altri negozi della zona”, aggiunge il suo vicino di attività, titolare di una camiceria della migliore tradizione napoletana.
Quando chiediamo a un farmacista nei pressi di Piazza Dante il motivo che lo ha spinto a montare lunghe fasce di metallo appuntite sui bordi della propria vetrina, l’addetto al banco ci confessa di non aver mai avuto problemi con la comunità dei senzatetto di zona: lì non vanno a dormire. E allora come mai la necessità di installare un congegno anti-appoggio? “Motivi di decoro,” questa la risposta del giovane alla cassa, che aggiunge “c’è l’hanno altri negozi, tanto vale prevenire”.
E questa particolare prospettiva è confermata anche da Pablo, senzatetto di origine straniera , che ci rassicura del buon cuore dei commercianti e dei residenti del posto poiché – a suo dire – “qui a differenza del Nord è più sicuro vivere per strada, c’è meno prepotenza dei capi del lavoro e delle persone”. Pablo mangia alla Caritas di zona e vive prendendosi cura del suo fidato compagno a quattro zampe. Alle sue spalle c’è il cancello di una chiesa. O meglio, il cancello che impedisce il libero accesso ai gradini di una chiesa. Anche queste sono forme – meno evidenti – di architettura ostile. Meno evidenti, ma più frequenti e più subdole, perché volute da chi – al contrario – fa della predica di amore e carità il punto centrale della propria missione. “Qualcuno andava a dormire su quei gradini, è vero. Sono scomodi ma vanno verso l’interno e si sta al riparo. Nessuno verrà a togliere questo cancello”
Eppure, basta salire qualche centinaio di metri lungo via Pessina per accorgersi che – come in un tubetto di dentifricio – tutto quello che sposti da un’estremità te lo ritrovi nell’altra. Non è difficile immaginare come, a chi è alla ricerca di un riparo per la notte, poco importi – giustamente – di mantenere il decoro urbano. Ed è così che sotto il porticato dirimpetto al Museo Archeologico Nazionale si ammassano – durante il giorno – decine di mendicanti e ”barboni”. Gli stessi che la notte si riversano nei corridoi della stazione metropolitana Museo, lasciati aperti e messi formalmente a disposizione dalle amministrazioni stesse. Molti trovano appoggio nelle case di accoglienza della Comunità Sant’Egidio. Chi non ci riesce, o vi si allontana, si ritrova in strada.
Uno dei senzatetto della zona, Kaling, ha 55 anni e viene dallo Sri-Lanka. La comunità cingalese, è quella numericamente più consistente tra gli stranieri a Napoli. E piazza Cavour è l’enclave partenopea degli emigranti dal paese del Serendip. Tra decine di ristoranti e negozi etnici Kaling – con il suo italiano abbozzato – ci ricorda che non basta spostarsi da un paese all’altro per garantirsi un tetto sulla testa, e che l’occidente tanto idealizzato non è il paradiso in terra che molti procacciatori di migranti vendono a quest’ultimi come punto d’arrivo di tratte migratorie improvvisate e pericolose. Si dice fortunato perché la sua comunità lo aiuta. E dove non arriva la comunità arrivano le istituzioni di soccorso, con le varie associazioni che distribuiscono cibo e bevande nelle ore serali.
“Non diamo fastidio ai commercianti, ma nessuno o quasi ci aiuta. Guardano a terra e poi vanno avanti. Noi dormiamo quasi tutti al Museo, ma non è sempre tranquillo perché spesso ci sono risse. Italiani stanno quasi solo con italiani. Ucraini con ucraini. E così via”
Ma il centro storico di Napoli non è l’unica zona in cui storie simili passano tragicamente inosservate. Spostandosi nei quartieri della buona borghesia, la musica non cambia. Nei pressi della Feltrinelli di via Santa Caterina a Chiaia si riversano i corpi stanchi dei dimenticati di quel quartiere. In una delle zone più chic di Napoli – dove il reddito pro-capite è tra i più elevati della città metropolitana – è finanche più semplice notare lo smacco tra il benessere e l’indigenza.
Maria ha una cinquantina di anni, vive a Chiaia con il suo compagno, anch’egli senza fissa dimora. Vive per strada, dice, “ma mangio a Santa Lucia, alla mensa dei poveri”. Dietro di lei c’è la vetrina di un negozio di abbigliamento, oramai fallito, che il proprietario dell’immobile cerca inutilmente di riaffittare. Ai bordi della vetrina c’è una pesante ghiera in metallo. “La vedi quella?”, mi chiede Maria. “Quella copre la vetrina di un negozio di abbigliamento dove mi accucciavo a dormire. Il proprietario ha detto che spaventavo i clienti, lì non potevo stare. E’ per me che l’hanno messa”.
Se la passa un po’ meglio la comunità di senzatetto che vive nell’area ovest nella città, tra Fuorigrotta e Bagnoli. Come ci racconta Gabriel, che ha quasi 50 anni e viene dalla Nigeria, lui non ha mai notato aggeggi simili in quelle zone, meno votate al turismo e più residenziali. Qui i senzatetto si radunano nei pressi di Piazzale Tecchio o di Piazza San Vitale, dove attendono volontari e comuni cittadini che portano loro cibo e coperte. Alcuni, come Enzo, trovano riparo in qualche scantinato in disuso. “M’arrangio lì, c’aggia fà?”, dice.
Ma la situazione è ben più critica nei pressi della stazione centrale di Piazza Garibaldi. Tra l’entrata della stazione, il quartiere Vasto alle spalle di questa e il sottopassaggio adiacente al Centro Direzionale si registra una presenza notevole di senza fissa dimora, che spesso si stendono ai lati degli edifici in cerca di riposo e protezione. Quanto basta per mettere i commercianti sull’attenti.
Basti pensare che l’ultimo civico di Corso Garibaldi ha 11 locali commerciali attivi nel suo perimetro. Di questi, sette hanno una o più forme di dissuasori di questo tipo. Intervistato, il titolare di una gioielleria si sfoga, ammettendo di provare “dispiacere per chi vive in strada,” ma di dover “prendere le giuste precauzioni. Qua il Comune fa poco e niente…l’unica cosa che posso fare è proteggermi così”.
Sempre nei pressi della stazione centrale, non è raro trovare un’altra forma di architettura ostile, sempre più comune nei punti di ritrovo e nei parchi cittadini. Questa è però una modalità di dissuasione che possiamo sperimentare tutti (ma che in ultima analisi finisce per affliggere maggiormente gli indigenti). Mi riferisco agli stratagemmi di pubblica firma, come le panchine con il divisorio, oramai comuni anche nei centri città e nelle stazioni metropolitane.
Napoli, si mostra quindi in linea con le altre città italiane ed europee. Da un lato, la sfida è quella di diminuire l’incidenza della povertà estrema, prima causa di homelessness, di perdita dei legami comunitari che dovrebbero evitare epiloghi tanto tragici. Dall’altro, invece, si combatte attivamente – con un peculiare connubio tra pubblico e privati commercianti – quella indefinita piaga che molti indicano con il generico termine di “degrado”.
Persone che degradano l’appeal dei luoghi. This must not be the place, per te.
La guida del Comune di Napoli alle strutture per i senzatetto è disponibile a questo link.